Sabato 17 aprile
h. 14 – 15,30 (CET - Roma/Madrid/Parigi/Berlino)
Moderatore: Lorenzo Palumbo
Relatori: Emanuela Widmar, Gianluca Frustagli, Fulvio De Vita, Vito Correddu, Roberta Consilvio
INTRODUZIONE
L’obiettivo di questa tavola rotonda è quello di presentare le prime conclusioni dello studio sulle radici e i meccanismi della vendetta nella cultura occidentale. Studio appassionante che ha coinvolto numerosi studiosi del Centro Studi per più di dieci anni. Il gruppo di studio che si è consolidato negli ultimi tempi comprende, oltre ai relatori qui presenti e al sottoscritto, anche Elena Fumagalli che desideriamo ringraziare per il suo prezioso contributo.
Il taglio che vogliamo dare all’evento di oggi ha l’aspirazione sia di presentare i punti salienti e le conclusioni di questo studio, sia di provare a riprodurre, per quanto possibile, il formato che abbiamo utilizzato in questi anni, fondato sullo studio ma anche su tanto, tantissimo interscambio. Infatti durante le decine di riunioni nelle quale i membri di questo gruppo confrontavano tesi, opinioni e contributi, si è sempre respirato oltre ad uno stimolante desiderio di conoscenza e approfondimento, anche un clima di amicizia e di particolare buon umore.
Ci daremo un’oretta circa per presentare i punti salienti dello studio per poi lasciare spazio alle domande.
Prima parte
DEFINIZIONI
Cos'è la vendetta?
Emanuela Widmar: La vendetta è quel meccanismo di risposta di singoli individui, di gruppi o di insiemi, più o meno numerosi, che parte da una convinzione profonda, cioè quella di cercare una soluzione, quando si riceve un’offesa, quando si è vittima di un’azione violenta, che possa compensare la situazione di sofferenza o di ingiustizia perché qualcosa è stato distrutto, annientato, è stato tolto a noi stessi o a chi ci sta vicino o ai gruppi di esseri umani in cui ci si identifica. La compensazione è, dunque, la seguente: se mi hanno sottratto qualcosa, io devo sottrarre qualcosa all'altro, cioè l’altro deve soffrire per quello che mi ha fatto soffrire. Con la vendetta ricostituisco la mia identità, ristabilisco un presupposto ordine perduto. Poiché l’identità coincide nella cultura occidentale con un “io sovrano, dominatore”, il fatto di sottrarre qualcosa all’altro (e di conseguenza di farlo soffrire) coincide con la riaffermazione del proprio dominio, del proprio controllo di nuovo ricostituito sull’altro. Solo con un'azione vendicatrice, questa è la credenza, si riuscirà a compensare quello squilibrio che è stato prodotto dall’azione che l’altro ha commesso. Chiaramente esistono vari tipi di vendetta: la vendetta a caldo, la vendetta a freddo, l’azione punitiva/vendicativa organizzata per decisione di governi, quella tribale/antropologica, come per esempio la vendetta secondo i codici barbaricini che regolano le azioni punitive e che servono per poter vivere in una comunità, in questo caso quella sarda. Nell’ambito giuridico spesso si sente esprimere il concetto “qui non si vuole vendetta, ma solo giustizia”, però il concetto di giustizia vigente, in troppi casi, ha proprio il sapore della vendetta.
Perché uno studio sulla vendetta oggi? Quale potrebbe essere la sua utilità nel panorama sociale attuale?
Vito Correddu: Parlare di vendetta oggi significa parlare del Sistema. Con Sistema non intendiamo solo l’apparato di controllo politico, economico e sociale. Intendiamo primariamente una forma mentale che plasma i valori, le aspirazioni e i comportamenti umani.
Con la ormai celebre morte di Dio di nietzschiana memoria, muore definitivamente il fondamento morale della cultura occidentale. Non c’è più un Dio che punisce in questa vita o in quell’altra il cattivo di turno. Non c’è più quella giustizia divina che rinfrancava le vittime dall’offesa ricevuta. Ma in questa morte del divino l’apparato statale che è il solo ormai deputato ad amministrare la giustizia non riesce però a riconciliare la vittima né a riabilitare il colpevole. Allo stesso tempo la gente avverte l’ipocrisia del Sistema che se da un lato afferma un’uguaglianza teorica nei diritti e davanti alla legge, di fatto impone modelli sociali così competitivi in cui emergono gerarchie sociali sempre più opprimenti.
Se la vendetta privata non è più il mezzo comune in cui si regolano i conflitti interpersonali oggi assistiamo a qualcosa di più pernicioso, vale a dire al desiderio frustrato di vendetta, quello che Nietzsche chiamava ressentiment, il risentimento. Siamo in un’epoca in cui il risentimento si esprime nel vissuto della gran parte dell’umanità, e in particolare nella cultura occidentale alla ricerca continua di un capro espiatorio sul quale scaricare le colpe del proprio fallimento.
Ma quello che si osserva a livello dei rapporti interpersonali lo si può osservare anche nei rapporti tra le nazioni e i popoli. Su questo piano il diritto internazionale non è riuscito ad arginare non solo il desiderio di vendetta ma nemmeno le azioni vendicative di una nazione sull’altra, di un popolo sull’altro, di uno stato sull’altro. Se poi consideriamo il potenziale delle armi di distruzione di massa ancora in campo, ci rendiamo conto che ci troviamo in una situazione dall’enorme gravità.
Ecco perché oggi è importante studiare la vendetta.
Studiare la vendetta significa studiare il Sistema, significa comprendere come questa si è originata, come si è sviluppata e radicata in una cultura. Se vogliamo trasformare il Sistema, dobbiamo conoscere la vendetta.
Come nasce l'idea di questo studio?
Fulvio De Vita: L’idea di sviluppare uno studio sulle radici della vendetta nasce fondamentalmente dalla necessità di chiarire le affermazioni che Silo ha fatto in diverse occasioni in cui si dice che il meccanismo della vendetta si fonda su alcune credenze culturali fortemente radicate in occidente. Definisce la vendetta come “Quella credenza profonda di vedere una soluzione nel far patire all’altro quello che si crede sia la base della sofferenza. Sembra che la soluzione, dal lato della vendetta, è quella di far patire all’altro quello che l’altro ha fatto patire a noi stessi o ad altre persone.”. Infine afferma che “Lottare per superare la vendetta è lo stesso che lottare contro il sistema e la sua struttura totale.”
Già Nietzsche alla fine dell’800 aveva scritto che l’unica soluzione per l’essere umano era salvare l’uomo dalla vendetta.
La vendetta ci sembra oggi una questione arcaica, ma entrando nel tema, la presenza del meccanismo della vendetta si può ancora osservare con molta chiarezza in moltissimi aspetti della vita sociale e personale: a partire dagli equilibri nelle relazioni internazionali in cui la minaccia della ritorsione (vendetta) è continuamente presente come nel caso degli embarghi contro nazioni; continuando nei sistemi giuridici in cui la cosiddetta giustizia opera ancora come risposta punitiva verso un colpevole; si trova la presenza di quel meccanismo, spesso giustificato in diversi modi, nelle produzioni dell’industria dell’intrattenimento, cinema, TV, ecc.; lo troviamo nelle relazioni personali, nelle relazioni di lavoro, nelle relazioni sociali in generale, nel gergo dei cartoni per bambini, ecc. come se fosse la cosa più naturale del mondo: vendicarsi per ristabilire gli equilibri, per sanare le offese.
Nel corso dello studio, è risultato abbastanza chiaro come tale meccanismo, radicato nella nostra cultura, ha provocato, e continua a provocare, una spirale di violenza senza fine. Come diceva Gandhi “Occhio per occhio” finirà per lasciare tutto il mondo cieco. Risulta allora altrettanto chiaro che l’uscita da tale spirale risiede in un processo di riconciliazione personale e sociale senza precedenti nella storia, e che dovremo decidere presto di intraprendere.
Perché la vendetta non è un meccanismo innato e inevitabile dell'essere umano?
Gianluca Frustagli: Prima di cercare di dare una risposta è sempre il caso di riflettere sulle implicazioni della domanda e questo vale in particolare in questo caso. Mi sembra che a considerarlo un meccanismo “innato e inevitabile” si entri fatalmente nel punto di vista dei quella corrente di pensiero che tende a vedere mutuati i comportamenti dell’essere umano dal mondo animale dato il suo percorso di origine biologica. Sia chiaro: l’essere umano nel corso della sua evoluzione si è trovato lungamente sottoposto a una forte pressione condizionante da parte dell’ambiente naturale: miti, allegorie e simbologie denunciano chiaramente questa influenza. Ma noi ci poniamo invece in un altro punto di vista: l’uomo è un essere storico che modifica intenzionalmente il suo ambiente e se stesso e che quindi, a differenza degli altri esseri viventi ed enti non ha una natura prefissata e definita e, inoltre, che le sue caratteristiche evolvono non solo in base all’evoluzione genetica ma soprattutto grazie alla trasmissione e l’interazione storico-culturale. Diciamo questo non perché lo assumiamo come un principio astratto. Lo diciamo perché lo vediamo, perché lo sperimentiamo e ci sembra anzi stupefacente che non appaia evidente. Ci sorprende quando si entra in questo punto di vista, dopo un po’ di tempo e si continua a riflettere e osservare, che tutto ciò non sia evidente.
Aggiungo che l’essere umano evolve in senso storico. In realtà la risposta deriva proprio dal lavoro di comprensione che si fa dalla vendetta. Non si può rispondere per così dire a priori. durante questo alvro di studio che abbiamo condotto, ci è sempre meglio risultato evidente che questo comportamento questo meccanismo ha e si è modificato nel corso del tempo in maniera che è strettamente correlabile allo sviluppo della storia delle civiltà - quindi l’osservazione di questo fa necessariamente cadere l’ipotesi che ci stia qualcosa di biologico e innato. quindi in certo qual modo è evitabile. la vendetta è evitabile, questo ci si manifesta in modo sempre più chiaro.
arriveranno aggiunte e dati su questa considerazione. In particolare segnaliamo perché verrà ripreso questo punto come nel mito di Oreste della Grecia classica, viene presentato in maniera quasi didascalica, evidente, che a un certo punto si è deciso quasi intenzionalmente di cambiare delle forme di comportamento. Questo veniva posto come una cesura, uno spartiacqua tra un mondo di barbarie in cui si aveva a che fare con dei comportamenti di stragi e di violenza indiscriminata, senza fine e che impedivano un’evoluzione più strutturata delle società. quindi a un certo punto in qualche modo si è deciso di porvi rimedio in maniera che noi riteniamo abbia determinato un cambiamento ma anche nuovi problemi da affrontare nell’evoluzione storica dell'essere umano.
Perché parliamo di vendetta in occidente?
VC: Innanzitutto parliamo della vendetta nella cultura occidentale perché siamo figli di questa cultura. Questo significa che possiamo guardarla da dentro, dai nostri vissuti. Possiamo vedere come la vendetta s’incastra con i nostri valori, con le nostre aspirazioni, con la nostra identità. Perchè la vendetta a che fare con tutto ciò: valori, aspirazioni e identità.
Non era possibile fare la stessa cosa con un’altra cultura. A questo però bisogna aggiungere che la vendetta sembra essere costitutiva della cultura occidentale perché da un lato non riusciamo a scorgere sufficienti riferimenti che indichino un superamento di questa pratica, dall’altro perché osserviamo che nella cultura occidentale la vendetta è pervasiva, dalla giustizia all’educazione e nei rapporti umani in generale. Nella cosiddetta giustizia per esempio vediamo come si faccia ancora molta difficoltà ad integrare processi di riabilitazione del colpevole. Gli istituti penali non sono uno strumento attraverso il quale si avvia un processo riabilitativo ma restano purtroppo, nella maggioranza dei casi, luoghi in cui la catena della violenza non solo non si rompe ma addirittura si rinforza. Abbiamo ancora nel mondo istituti come quello della pena di morte o dell’ergastolo. Che cosa sono questi se non mascheramenti della vendetta? Ovviamente non è più la vendetta privata, che poi ‘privata’ lo era solo in certi casi sporadici, perché in realtà, c’era tutto un contesto sociale che sorvegliava sulla proporzione dell’atto vendicativo, ma c’è da aggiungere che la vendetta privata prima che un diritto era un dovere nei confronti della comunità di appartenenza. Quindi la vendetta passa da essere fatto privato a fatto pubblico, che in altre parole, significa che questa è amministrata dal potere costituito. Possiamo dire che questo sia stato un bene? Io dico che questo dipende dal potere che si è costituito.
Qual è la relazione tra vendetta, violenza e sofferenza umana?
Roberta Consilvio: Secondo la definizione presente nel Dizionario del Nuovo Umanesimo la violenza “è il modo più semplice, frequente ed efficace per conservare il potere e la supremazia, per imporre la propria volontà ad altri, per usurpare il potere, la proprietà e anche le vite altrui.” In pratica per assoggettare l’intenzione e la libertà altrui alla propria. L’idea è che la violenza abbia un obiettivo, un risultato desiderato, che si vuole conseguire anche a costo di danneggiare e far soffrire un altro individuo. Perciò spesso la violenza non è orientata verso un nemico determinato, e non è centrata sul far soffrire l’altro, anche se può accadere perché si vuole ottenere qualcosa e la violenza è vista come un mezzo adeguato, forse perfino necessario, ad ottenere quel risultato. Pensiamo a quanta violenza c’è stata nell’educazione dei bambini fino ad ora: per insegnarti le regole ti devo dare un paio di schiaffi, altrimenti non capisci. Quando si parla di violenza, ci viene in mente la violenza fisica perché l’aggressione corporale ne è l'espressione più evidente. Ma esistono altre forme di violenza, più o meno manifeste: economica, razziale, religiosa, sessuale, e possiamo scoprire violenza ogni volta in cui la nostra volontà viene soffocata in modo arbitrario, surrettizio e antiumano.
Nella vendetta il focus dell’azione, il risultato che si vuole ottenere, è far soffrire l’altro, far patire all’altro quello che l’altro ha fatto patire a noi, in una forma di reciprocità distorta. Nel momento in cui io voglio far soffrire l’altro sto imponendo all’altro un’intenzione non evolutiva, dato che la direzione di un organismo sempre va verso il superamento del dolore e della sofferenza. In definitiva quindi la vendetta è uno dei modi che può assumere la violenza, con un focus particolare sulla sofferenza e sul dolore patiti e restituiti, sulla risposta che si dà per superare il proprio dolore e sofferenza. Il dolore è fisico, la sofferenza è mentale. Voglio superarli, ma il modo è distorto, perché in realtà con la vendetta io non supero la mia sofferenza, ma ne creo altra in altri esseri umani, contribuendo a creare una catena di sofferenza che si autoperpetua.
SVILUPPO DEL TEMA
Ci sono altre risposte alla sofferenza?
RC: Abbiamo visto che la vendetta è un tipo di risposta che sorge per superare il dolore e la sofferenza patiti in un certa situazione in cui abbiamo individuato un colpevole che ci ha offeso in qualche modo. Ma esistono altri modi di rispondere alla sofferenza di una supposta offesa patita.
Abbiamo individuato tutto un gruppo di risposte che abbiamo denominato come “fughe”, in cui si crede di poter risolvere la sofferenza anestetizzandola in sé, fuggendola quindi: forme di autolesionismo, di annichilimento e rimozione psicologica che possono sfociare persino in aspetti patologici, importante è smettere di soffrire e sconnettere l’offesa che tanto fa patire. Questo tipo di risposte vanno a danno del soggetto offeso e non risolvono certo la sofferenza.
Un secondo gruppo di risposte si riferiscono alla catarsi, inteso come meccanismo di sfogo, di scarico della sofferenza patita: qui ci sono i comportamenti vandalici, la distruzione di oggetti e la catarsi in forma di pianto. La sofferenza viene “agita” all’esterno, per poter essere superata, ma in maniera non necessariamente diretta a colpire chi si ritiene responsabile dell’offesa subita.
Un altro gruppo di risposte sono le risposte di sublimazione, in cui la sofferenza viene superata sulla base di credenze in qualcosa di “superiore”: ci si affida al sistema giudiziario, ci si eleva moralmente attraverso il perdono che spesso è sostenuto da un credo religioso, si affronta il lutto subito secondo la propria fede nel trascendente. Sono risposte non distruttive, in cui c’è una credenza che interviene “elevando”, “sublimando” la sofferenza ad un piano di senso più alto, collettivo o spirituale.
L’ultimo gruppo di risposte che in parte portano ad un superamento della sofferenza patita per un’offesa rientra nella categoria dell’azione trasformatrice: sono risposte costruttive in cui si mette in discussione la credenza che sta alla base della sofferenza subita e si fanno azioni per influire nel mondo in vista di un superamento definitivo di quella sofferenza. Quanti genitori, dopo la perdita di un figlio, hanno creato associazioni ed opere affinché quella loro sofferenza potesse non solo essere superata ma anche essere di aiuto ad altri? Questo è un tipo di risposta più costruttivo. Ma per superare in modo definitivo la sofferenza legata all’offesa dobbiamo parlare della riconciliazione, che è un processo psicologico articolato e mai completamente finito nell’esistenza di ciascuno.
Che succede di preciso quando veniamo offesi?
EW: Gli elementi della vendetta osservati secondo una gradualità temporale sono i seguenti:
-L’atto scatenante che lede l’integrità individuale o di gruppo o dell’insieme di appartenenza nel quale uno o più individui si identificano (per intenderci una squadra di calcio, una fede politica, una istituzione religiosa)
-Il registro cioè il sentore di offesa.
-Il registro di sottrazione, quella sensazione di instabilità, di sofferenza con la chiusura di futuro per una determinata situazione o chiusura totale del futuro.
-La ricerca e individuazione del colpevole e dell’intenzionalità di offendere, di colpire, di procurare danno e sofferenza. L’investigazione su chi sia l’autore e se è individuale è più circoscritta e mirata, se è sociale c’è un coinvolgimento dei mass-media, delle istituzioni etc.
-La configurazione dell’immagine della risposta vendicativa, cioè i modi e metodi per mettere in pratica l’azione vendicativa.
-La restituzione dell'offesa cioè l’atto finale, l’atto vendicativo.
A livello individuale: l’azione violenta vendicativa (fisica o psicologica) colpisce la persona colpevole o i suoi beni o l’ambito in cui vive, le persone vicine etc.
Se è sociale: c’è il coinvolgimento delle istituzioni (tribunali, giudici), l’azione di carattere punitivo e/o dimostrativo potrebbe essere, per esempio, tra stati o tra organizzazioni eversive e rappresentanti delle istituzioni etc.
Questi elementi sono in un ordine di tipo temporale e organizzati in questo modo potrebbero essere validi per qualsiasi tipo di vendetta, dobbiamo però considerare anche i valori che nel mondo occidentale muovono questo tipo di azioni e non altre.
Possiamo essere felici vendicandoci?
FDV: La maggior parte delle persone che sono inserite in un contesto culturale in cui esiste la credenza che sia necessario trovare un colpevole e stabilire una punizione compensatoria del torto subito (che è il meccanismo di base della vendetta) crederà anche fortemente che la vendetta porterà sollievo alla loro sofferenza e ristabilirà in qualche modo l'equilibrio perduto, che questo si chiami onore o in altro modo.
Purtroppo è un dato di fatto che tutti noi, immersi nel contesto culturale occidentale, crediamo in un modo o nell’altro nel potere “miracoloso” della vendetta come soluzione.
In effetti è possibile che dopo aver avuto “giustizia” si provi effettivamente un certo rilassamento e ci senta meglio, ma questo avviene in genere solo per un breve periodo di tempo, come se ci fosse stata una distensione catartica delle tensioni. In realtà attraverso quel meccanismo della vendetta non c’è elaborazione né integrazione del contenuto sofferente. Questo da una parte.
Dall’altra si aggiungerà un’ulteriore contraddizione, che a sua volta produce sofferenza in sé stessi, che è quella di aver fatto del male ad altre persone, sia lo stesso colpevole, che ai suoi familiari, ecc. e quindi di aver contribuito alla catena della vendetta e della violenza.
Quindi vendicandosi, la sensazione interna di sofferenza invece di diminuire aumenta, e per quanto uno lo possa nascondere a sé stesso, o possa venir riconosciuto socialmente dagli altri perché ha fatto “la cosa giusta”, quella sofferenza e contraddizione continuano ad agire in sé stessi e nella società. Non parliamo poi se il meccanismo punitivo compensatorio della vendetta viene attuato da intere nazioni verso altri popoli.
Per quello che arriviamo a dire che la vendetta sta continuando perpetuare una catena di violenza senza fine alla quale, in qualche momento, sarà necessario porre termine.
Perché insistiamo nel dire che la vendetta ha una sua peculiarità con l’occidente? Non esiste forse la vendetta in Giappone, in India o in altre culture?
GF: È una questione particolarmente complicata: in primo luogo perché per dare una risposta seriamente fondata occorrerebbe condurre una sorta di studio comparativo e comunque un approfondimento di ciò che avviene in culture ben diverse e distanti da quella che chiamiamo “occidentale” e noi invece ci siamo concentrati su questa con poche digressioni.
Non che sarebbe necessaria chissà quale “compenetrazione”: non c’è bisogno di andare a vivere per qualche anno in uno sperduto villaggio cinese o nella foresta del Borneo per capire se fra quelle genti le cose vanno in maniera effettivamente differente.
Viste dall’“esterno”, soprattutto rispetto a un tema così particolare, le culture evidenziano abbastanza presto se possono fornire degli elementi che possono essere interessanti, o no.
Un’altra cosa di cui occorre tenere conto è che quella che chiamiamo “cultura occidentale” ha forse più di ogni altra cultura nella storia, esercitato, in una forma o nell’altra, un’influenza a livello planetario su tutte le altre, tanto che proprio per questo occorre fare attenzione a ciò che realmente si va a trovare.
Ma forse il problema più difficile è comprendere il senso della domanda stessa e non possiamo farlo se in qualche modo diamo malamente per scontato il presupposto che sembra implicare: siamo già pieni di intellettuali occidentali che in maniera tanto autolesionista quanto superficiale si esercitano (con qualche successo editoriale) a denunciare i mali della cultura in cui sono nati e non ci interessa ingrossarne le fila.
Quello che è evidente è che la vendetta non è affatto caratteristica esclusiva della cultura occidentale e che si riscontra nei posti, storie e culture più diversi. È anche vero però che ci sono esempi significativi di popoli che mostrano rispetto alla vendetta una inclinazione culturale nettamente diversa e che vale la pena approfondire: gli esempi che vengono dall’”esterno”, da un’altra cultura, possono essere illuminanti.
Quindi non è questo il punto: il punto è che forse la vendetta si radica in un elemento del sostrato mitico (un nucleo di insogno collettivo) che nel caso della cultura occidentale s’è espresso in maniera particolarmente forte. I trionfi dell’Occidente s’accompagnano a questa cosa che stiamo studiando e sembra proprio che dobbiamo andare a cercare lì a un livello molto profondo e anche piuttosto antico, e in questo lavoro ci si accorge che possono essere tralasciate ipotesi che hanno a che fare con delle sovrastrutture.
Dietro tutta questa storia c’è Gilgamesh e tutti i problemi esistenziali che quel mito rappresenta, con elementi ancora profondamente sedimentati e che influenzano profondamente le credenze dell’uomo di oggi. Questo perché si tratta appunto di questioni importanti e fondamentali, che hanno trovato nella storia del mondo occidentale una certa direzione con forza di sviluppo, che, come abbiamo sottolineato prima, ha condotto a un’influenza di portata planetaria.
Perché nello studio sono stati così importanti i Miti e che relazione c'è tra questi e la vendetta?
RC: La vendetta si basa sulla credenza che ci debba essere una reciprocità tra la sofferenza dell’offeso e quella del colpevole. Questa reciprocità si basa su credenze molto antiche, che ritroviamo nelle religioni pre-cristiane, da quella greco-romana risalendo fino ai miti nati in seno alle popolazioni mesopotamiche. In questi miti, a partire dal caos amorfo, gli dèi hanno creato il mondo secondo un Ordine prestabilito e vegliano affinché niente possa alterare tale ordine. Questo ordine è prima di tutto ontico, cioè relativo all’esistente, ma si concretizza nell’ordine naturale degli esseri viventi e nell’ordine sociale degli esseri umani. L’ordine divino diventa ordine umano: così in cielo come in terra. Quando qui sulla terra si commette omicidio, furto, violenza, si sta mettendo in pericolo non solo l’ordine sociale ma soprattutto l’Ordine Cosmico retto dagli dèi. Gilgamesh, l’eroe della famosa Epopea, viene punito perché ha osato sfidare gli dèi. Inoltre ciò che porta disequilibrio deve essere riequilibrato con una “punizione” che altro non è se non una forma di contrappasso dove l’azione del colpevole viene a ritorcersi contro di lui. La legge del taglione della Bibbia “occhio per occhio, dente per dente” rende conto di questo rispecchiamento del danno con la pena e della proporzionalità che deve esistere affinché si riporti l’equilibrio nel mondo. La giustizia non è cieca vendetta, ma viene “misurata” affinché possa bilanciare ciò che si è subito. Accanto ai miti quindi anche gli ordinamenti giuridici ci offrono informazioni sulla storia della vendetta. I primi codici giuridici, che comunque sono un dono degli dèi per mantenere l’ordine della vita, stabiliscono pene che rispecchiano i comportamenti da sanzionare, come il codice del re babilonese Hammurabi, tra i primi della storia.
Altro mito importante è quello presente nell’Orestea di Eschilo, in cui la dea Atena interviene a interrompere la catena della vendetta, ritenuta arcaica e non degna della civiltà greca del momento (siamo nel V secolo prima dell’era vigente) e a “donare” agli esseri umani il processo del colpevole attraverso le istituzioni della democrazia greca dell’epoca, come contributo degli dèi all’avanzamento della società.
Qual è la definizione di occidente che stiamo utilizzando?
VC: Il concetto di occidente è a mio avviso il concetto più inafferrabile della nostra ricerca. Non sappiamo nemmeno in che misura questo sia chiaro a livello accademico tuttavia siamo stati obbligati a dare un perimetro alla nostra ricerca. In maniera imprevista ci siamo dovuti confrontare con un perimetro dinamico e molto più esteso di quanto immaginavamo.
La vendetta non è un fenomeno riconducibile ad una sola cultura, piuttosto è vero il contrario. Ogni cultura però sceglie come regolare i conflitti in un modo che le è peculiare. In questo senso abbiamo osservato un’area geografica in cui si è scelto di regolare i conflitti attraverso la creazione di codici, di leggi. Il primo di questi codici è stato quello di Ur-Nammu intorno al 2100 a.C. seguito dal più celebre codice di Hammurabi del 1750 a.C.. Questi codici erano incisi sulla pietra e posti al centro delle città stato che erano sotto il controllo di questi re mesopotamici. Avevano la funzione di omogeneizzare il diritto soprattutto in un’area che a quei tempi rappresentava un grande crocevia di popoli e nazioni, ognuno con i suoi costumi e tradizioni. Quei codici quindi se da un lato cercano di regolare i possibili conflitti, rappresentando così un inequivocabile avanzamento di fronte all’arbitrarietà della vendetta privata, dall’altro legittimano il potere costituito e soprattutto sottraggono alle popolazioni ogni altra possibilità di risposta di fronte al conflitto. In sostanza da quel momento in poi sarà solo sotto l’egida del re, che si amministrerà la violenza della vendetta. Perché in definitiva sempre di vendetta si tratta solo che questa dalla sfera privata passa a quella diciamo pubblica. La legge, i codici, quindi cominciano a ergersi al di sopra dei costumi e delle tradizioni, costumi e tradizioni che fino a quel momento erano trasmessi oralmente. Una traccia di quelle antiche tradizioni e costumi sono arrivate fino ai giorni nostri attraverso le ricerche condotte da Antonio Pigliaru sul codice della vendetta barbaricino in Sardegna.
Quest’ultimo, insieme al Kanun albanese rappresentano delle vere e proprie vestigia di quelle antiche modalità di far fronte al conflitto tra individui e gruppi umani in tutto il bacino mediterraneo e in Asia Minore.
Ritornando ad Hammurabi, quel modello mesopotamico sorprendentemente comincia a diventare un riferimento per altri popoli nelle zone limitrofe. Entrerà prepotentemente nella cultura ebraica e da quella all’Egitto e in Grecia e più tardi dalla Grecia ai Romani, che su questa materia dei codici incardineranno il loro impero e la loro identità. Si era romani, civus romanus sum, non perché si era nati a Roma ma perché si aderiva proprio al sistema giuridico romano.
Nella nostra storia, si può dire che c'è stato un momento di massimo sviluppo della vendetta?
EW: La vendetta è un fenomeno umano, intenzionale e in quanto fenomeno umano, segue un suo processo. Ha un inizio, un apogeo e, pertanto, vedrà una fine. Questo studio considera l’inizio del processo nel codice di Hammurabi che l’imperatore babilonese rese pubblico su una stele, intorno al 1750 a.e.v. È importante perché è il primo corpus legale del mondo antico e per la prima volta si considera in modo proporzionale, secondo i valori di quel periodo storico, il rapporto tra danno subìto e pena al trasgressore. Con Hammurabi si ha, dunque, una svolta: la prima regolamentazione della vendetta.
-Intorno al 1250 a.e.v. con la compilazione del Libro sacro della religione ebraica, la Torah, si nota un ulteriore sviluppo del concetto della vendetta che viene giustificata solo se emanata da Dio, che è un Dio vendicatore, l’unico che può riservarsi il diritto di vendicarsi e di punire. Questa idea viene ulteriormente diffusa attraverso gli spostamenti del popolo ebraico nel corso dei secoli.
-Nello sviluppo storico del concetto di vendetta, prendiamo come esempio l’impero persiano sotto Ciro il Grande (intorno al 500 a.e.v.), periodo in cui si istituisce il processo e il controllo verticale dei procedimenti giuridici. Si continuano ad avere leggi e principi legali scritti ma, vista l’ampiezza territoriale dell’impero, nei territori più lontani i codici sono accorpati agli usi locali. Il controllo avviene tramite i governatori che ispezionavano il funzionamento dei tribunali. In certi casi, come per la pena di morte l’Imperatore in persona insieme a un collegio di giudici fidati, conduceva ed emetteva sentenze però, non si considerava responsabile delle sue decisioni giuridiche perché aveva solamente obbedito al suo Dio. L’idea della vendetta, dunque, si evolve con un controllo del potere verticale e con la nascita di più figure e istituzioni giudicanti.
-Il punto più alto dello sviluppo della vendetta, possiamo farlo coincidere con l’inizio della massima espansione dell’impero romano. I codici del diritto romano antico vengono diffusi in tutti i territori dell’impero. Mantengono l’idea dell’atto punitivo in linea con codici precedenti, specialmente quelli persiani e greci, ma c’è una riduzione del potere del sovrano a favore del codice stabilito. Un gran numero di queste norme punitive diventeranno la base di tutti i codici giuridici successivi dell’Occidente. Con il Nuovo Testamento, l’idea della vendetta comincia a essere scalfita. Viene introdotto il tema del perdono e si inizia a sgretolare il concetto della vendetta: esiste un’alternativa alla vendetta e viene esposta per iscritto in un Libro sacro.
Perché diciamo che ai nostri giorni stiamo vivendo la fase conclusiva del processo della vendetta?
FDV: Come diceva Emanuela poco fa, col Nuovo Testamento e lo sviluppo del cristianesimo nel mediterraneo prima e poi in tutto l’occidente, si inserisce un nuovo elemento diverso nella cultura della vendetta dominante fino a quel momento: il perdono. Un elemento che offre una diversa prospettiva alle possibili risposte che si possono dare in situazioni di sofferenza. Sicuramente è stato un primo passo per disarticolare la credenza che far soffrire gli altri nella stessa misura in cui noi avevamo sofferto avrebbe ristabilito l’equilibrio e ci avrebbe compensato. Ma, come si può chiaramente vedere ancora oggi, non è stato sufficiente. La struttura della vendetta ha continuato e continua ancora oggi a influire nelle relazioni sociali e tra i popoli.
Però è anche chiaro che da quel momento si è innescato un processo, visibile nei movimenti pauperistici ed eretici del medioevo, sempre all’interno del Cristianesimo, nell’umanesimo storico e nel rinascimento con molti piccoli segnali che tendono a rompere con i le antiche credenze, come la Magna Charta, fino ad arrivare all’epoca della rivoluzione francese, alle affermazioni di Beccaria sulla pena di morte e ai primi stati che la aboliscono.
In epoca moderna continuano ad apparire sempre più segnali di rottura con la comparsa dei grandi movimenti nonviolenti di Gandhi, ispirati dagli scritti di Tolstoj, con la Perestroika di Gorbachov, con l’aumento del pacifismo, del rifiuto della guerra come soluzione, delle affermazioni che mettono in discussione fortemente i sistemi giuridici attuali. tutto questo si traslada poi ai diversi atteggiamenti e comportamenti nelle relazioni sociali interpersonali aumentando la consapevolezza che l’ “occhio per occhio” non ha molto futuro.
Certamente non ci siamo ancora liberati da quella vecchia credenza, anche grazie al fatto che essa è stata, fin dall’epoca dei grandi imperi, di grande utilità ai poteri forti, che cercano comunque di perpetuarla.
Ed è anche certo che il vero salto verso una nuova cultura, una cultura libera dalla violenza della vendetta, deve passare attraverso un processo di riconciliazione profondo sia personale che sociale, senza falsificare il passato, ma piuttosto comprendendo che attraverso la vendetta, attraverso i sistemi punitivi, aumenta la sofferenza e la violenza.
CONCLUSIONI
Ciascun relatore espone l’aspetto (o gli aspetti) più importante che ha appreso sulla vendetta durante lo studio: cambiamenti di punto di vista, intuizioni, nuove prospettive, crescite personali, ecc.
GF: Quello che in genere accade durante uno studio che, come in questo caso, si intraprende per dare risposta a una domanda, un problema posto su una questione così rilevante, è che mentre per lungo tempo si accumulano dati, si fanno riflessioni e si hanno discussioni, questo tempo trascorre accompagnato dalla sensazione che si stia, per così dire, girando intorno alla “soluzione”, alla comprensione della questione, apparentemente senza avvicinarvisi mentre le ipotesi che via via si costruiscono non resistono alla cernita del dubbio e della critica.
Ma in questo caso per critica non intendo una critica di natura intellettuale: data la natura della questione e dell’oggetto di studio l’atteggiamento critico corrisponde piuttosto alla ripetuta applicazione della domanda che porta a chiedersi se sinceramente e in coscienza una data ipotesi o una spiegazione possa essere riconosciuta come valida. Senza questa riflessione in se stessi si farebbe solo intellettualismo.
Dopo una lunga serie di fallimenti in questo senso, alla fine si approda a qualcosa che sembra avere la caratteristica di una intuizione, di una comprensione che unisce il pregio della semplicità a quello della potenza esplicativa, che può essere applicata a tutte le questioni esaminate, chiarendole e unendole coerentemente con un “filo”. Contemporaneamente si riconosce che il tempo non è certo passato invano e che quello che si è realizzato è un processo di accumulazione, anche se questo ha agito con modi e tempi che il proprio io non immaginava come soddisfacenti e questo rende sempre più interessante il tutto.
Ma forse la cosa più importante è che, toccandone le radici, mi è diventato evidente che questo tema, tanto grave, può essere superato. Che l’essere umano ha a disposizione tutto ciò che è necessario affinché questa cosa venga superata.
RC: Superare la vendetta significa prima di tutto diventare consapevoli delle credenze profonde che permeano la nostra cultura, che sono la base del trasfondo psico-sociale odierno dell’Occidente. Per metterle in discussione. Dobbiamo vederne il fallimento nella vendetta e quindi scegliere quelle risposte che in modo costruttivo superano la sofferenza e creano nuove condizioni mentali, psicologiche, culturali, affinché certi comportamenti non trovino il contesto per ripetersi.
VC: Occorre fare molta attenzione ai propri pensieri, alle proprie emozioni, e quindi alle proprie azioni!
Ancora oggi faccio molta fatica ad immaginare un mondo senza il meccanismo della vendetta e non credo di essere il solo.
Come potrei rispondere all’offesa ricevuta senza scatenare altra violenza? Cosa mi accadrebbe se rifiutassi il meccanismo della vendetta? Cosa sarei io se non riuscissi a trionfare sul mio nemico? Come potrei mai sopportare il senso di colpa per non essere riuscito adeguatamente a difendere le mie cose, le persone a me care, la mia identità? Come potrei vivere senza quel risentimento che oggi mi aiuta a riconoscermi allo specchio? Voglio veramente riconciliarmi con la vita?
Sono queste le domande che ci hanno sfidato lungo tutto lo studio sulla vendetta. Domande alle quali non sempre ho dato una risposta.
La vendetta è un tentativo, è vero, ma pur sempre un tentativo di una coscienza superstiziosa, che crede, direi magicamente, che la sofferenza del mio nemico rappresenti il nostro lasciapassare per accedere all’olimpo degli eroi o al giardino dei giusti.
Abbiamo così fame di giustizia che finiamo per misurare tutto con la bilancia e chissà perché il nostro piatto, crediamo sia sempre più leggero dell’altro.
EW: Questo studio ci ha reso consapevoli di quanto profonda, penetrante e sorprendentemente radicata sia la vendetta nel nostro mondo e quanto sarà difficile modificare i nostri comportamenti individuali, di gruppo e il nostro sistema giuridico. Credo, quindi, che una testimonianza personale sia importante e sia importante osservare come questa voglia di vendetta anche minima, che sentiamo spesso nel nostro quotidiano, debba essere superata. Posso descrivere alcune esperienze della vita di tutti i giorni che analizzate in modo minuzioso, risultano molto interessanti perché i meccanismi di risposta sono identici a quelli più eclatanti e violenti: per esempio, le reazioni che ho nel traffico verso chi non osserva lo stop, verso chi non rispetta la fila, un posteggio di un’auto che ti blocca la tua…insomma piccole vicende che possono scatenare, in me come in altri, una risposta con il sapore della punizione, della vendetta. Questo studio mi ha portato, dunque, a riflettere quanto l’atteggiamento vendicativo anche nelle situazioni di tutti i giorni sia barbaro e primitivo, ma allo stesso tempo così comune, e quanto sia importante poterlo modificare. È necessario trovare un altro tipo di risposta, creare uno spazio mentale e fisico di distanziamento e, anche se questo è evidente per molti a livello teorico, a esercitarlo nel quotidiano personale c’è bisogno di grande attenzione, responsabilità e disciplina per poterlo ripetere sempre più spesso, fino a metterlo in pratica senza più pensarci.
FDV: Credo che la cosa più importante che mi è rimasta di questo studio, giunto ormai alle sue fasi conclusive, è la consapevolezza, o meglio, una visione diversa e molto più aperta del futuro.
Riuscire a intravedere per la prima volta come potrebbe essere una società del futuro senza colpevoli e punizioni, riuscire almeno a tentare di immaginare le relazioni umane senza vendetta e senza violenza, mi hanno fatto vivere un'esperienza veramente unica rispetto al futuro dell’essere umano e anche di me stesso. Ho compreso i tanti tentativi che si stanno facendo oggi nella società per superare e liberarsi da tale convinzioni arcaiche così radicate nella nostra cultura, nel nostro mondo, nella nostra coscienza. Ho visto aprirsi un nuovo orizzonte.
Credo che questo sia il momento in cui le nazioni, i popoli, le società e gli individui abbiano la capacità di innalzarsi al di sopra della cultura del dominio e del trionfo a tutti i costi.
Certo, c’è ancora strada da percorrere, tabù culturali da superare, poteri da bypassare, ma vedo anche come moltissima gente in tutto il pianeta stia aspirando a un mondo che va nella direzione della riconciliazione, della solidarietà, della comprensione.
E tutto questo mi fa credere che molto presto l’essere umano sarà in grado di compiere un nuovo salto evolutivo, liberandosi da ciò che lo tiene ancora imprigionato.